giovedì 2 ottobre 2008

Moby

Perchè non si creda che il rigirìo tra Twitter, Facebook, Blogger, Flickr, Netvibes e Reader mi abbia fatto perder di vista la promessa, eccovi il penultimo post su Moby.

[Per inciso: se avete cose urgenti ed importanti da dirmi, non affidatevi a questi instant messenger perchè mi stanno ubriacando. Giungerà gradita e sicura una lettera ordinaria alla solita Casella Postale 140]

Come credo di aver già illustrato, ritengo di un certo interesse esaminare l'uso che han fatto della luce gli artisti e gli scrittori. Una antologia della luce nella letteratura, ammesso che non sia stata ancora realizzata, sarebbe opera meritoria e folgorante alla quale porre mano immediatamente.
Ma in questo post intendo chiarire un altro punto: persino nell'oscura categoria Lucus a non lucendo nella quale raccolgo queste mie fumose speculazioni, non manca il supporto di Melville.
Egli ha la mirabile ed abbagliante idea di stravolgere, nel lettore, la sicurezza che la luce del sole sia qualcosa di buono, benvenuto, rassicurante, ricercato, benigno, atteso. In questo caso, come leggerete, il sole è invece qualcosa di completamente diverso. Talmente distante dall'uomo e dalle sue necessità che, il solo pensiero, acceca.


Pensate quindi a quali estremi di accesso e forsennato furore fossero spinte le menti dei più disperati cacciatori quando, tra i frantumi delle lance stritolate e le membra affondanti dei compagni squarciati, essi uscivano nuotando dai bianchi ribollimenti dell'ira terribile della balena nella luce serena ed esasperante del sole che continuava a sorridere come a una nascita o a uno sponsale.

Melville, H., Moby Dick, Adelphi, Milano, 1994.

[Cap. XLI, Moby Dick, pag. 223].

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