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mercoledì 8 giugno 2011

Less is less

Il mio peggior sbaglio è quello di non contraddirmi mai.

Ma questa volta debbo fare un'eccezione. Talvolta accade che 'less is less". Eccome. E' questo il caso, tristemente celebre, dell'insalata nizzarda.

Tu vai in un ristorante, in una osteria, in una boulangerie - come è capitato a me quest'oggi - ed il menù ti promette a chiare lettere una nizzarda; magari addirittura facendo precedere il titolo dal roboante accrescitivo 'insalatona'.

Oh, bene, pensi tra te e te. Una bella nizzarda, e non ci penso più. Un piatto unico, completo, sfamante, proposto ad un prezzo accettabile. E' proprio quello che ci vuole.

La giovane cameriera, col sinale annodato dietro la schiena, arriva dopo pochi minuti e ti serve in tavola una ciotola con foglie verdi, del tonno annerito ed un ovo di numero. Ah, dimenticavo, se ti va bene c'è anche qualche cappero salatissimo che ti occhieggia da sotto il cumulo.

E' bene che si sappia che questa pietanza non è - ripeto NON è - una nizzarda. E non ne costituisce neppure una variante. Perchè una insalata qualsiasi possa fregiarsi della pregiata qualifica occorre aggiungervi quantomeno:

acciughe
carciofi violetti
cipolla
fave (quando la stagione lo consente)
olive nere
peperoni
pomodoro
sedano
uova

Se poi si vuole fare all'italiana si sostituiscono carciofi e peperoni con patate e fagiolini. Ma so che questa ultima dichiarazione farebbe inorridire più di una persona.

Quella che mi hanno propinato oggi è solo una pallida imitazione della nizzarda. E', al più, una insalataccia di Grimaldi Inferiore.

venerdì 29 ottobre 2010

I tempi del nonno

Ai miei maestri piaceva mangiar bene, e questo vizio deve essermi rimasto anche nell'età adulta. Ricordo tavolate, se non liete almeno compunte, dove i buoni padri discutevano sull'eccellenza di un bollito misto che il nonno aveva fatto apprestare.
Ci volevano almeno mezzo chilo di muscolo di manzo, una coda, culaccio, salamini, lingua di vitello, testina, cotechino, gallina, una cipolla, due carote, due coste di sedano, una manciata di prezzemolo. Il tutto lasciato cuocere per tempi diversi, secondo il tipo di carne. Ma, come ricordava il nonno, e padre Bergamaschi approvava con energici cenni del capo, appena collocato il bollito sul vassoio di portata, occorreva spargere una manciata di sale grosso sulla carne e versarvi alcuni mestoli di brondo bollente, per farne risaltare il sapore. Poco contorno, salvo qualche patata, ma fondamentali le salse, vuoi mostarda d'uva, salsa al rafano, mostarda alla senape di frutta, ma soprattutto (il nonno non transigeva) il bagnetto verde: una manciata di prezzemolo, quattro filetti d'acciuga, la mollica di un panino, un cucchiaio di capperi, uno spicchio d'aglio, un tuorlo d'uovo sodo. Il tutto finemente tritato con olio d'oliva e aceto.
Questi erano stati, ricordo, i piaceri della mia infanzia e adolescenza. Che altro desiderare ?

Eco, U., Il cimitero di Praga, Bompiani, Milano, 2010, pg. 79

mercoledì 12 novembre 2008

Palermo - Trapani

Con una certa trepidazione mi accingo a ricopiare qui di seguito alcune righe che un mio più illustre maggiore scrisse nella prima metà del secolo scorso.

Così le due notti passate a Trapani rimangono nella mia memoria con un appunto di minor sofferenza. Trascorsero in una atmosfera di allegria, alla quale non era estraneo il fuoco che il vulcanico vino delle vigne di Mazzara e di Marsala accendevano nella fantasia e nel cuore di tutti, anche di quelli che, astemi, per curiosità solo qualche sorso bevevano.
Con tali fiaccole, il carcere tessuto dalle ombre sembrava si aprisse alla virtù del sole meridiano.
La vita del passato e la brama dell'avvenire, lette e proiettate con la fatica del ricordo e del pronostico, perdono gli uncini dell'asprezza e corrono più lisce alla foce del desiderio. Se qualcuno dicesse che l'esistenza "tanto è amara che poco più è morte", con un bicchiere di quello che io intendo si convertirebbe a scoprire in Dante una tendenza ad esagerare.
E' un vino che sta tra il giallo e il rosso degli antichi velluti genovesi.

Salvatori, L., Al confino e in carcere, Feltrinelli, Milano, 1958.

martedì 28 ottobre 2008

La settimana scorsa, nel 1554

Acid green, purple fashion, silk blue ... sono i nomi moderni dati a colori che erano già nella tavolozza di Jacopo Carrucci, il Pontormo. Ennesima e superflua riprova che non si inventa nulla e che nella vicenda del sapere non vi è progresso, ma al massimo una continua e sublime ricapitolazione.

Pontormo era un ossessivo compulsivo e registrava con maniacale precisione ogni suo pranzo ed ogni sua cena. Almeno così traspare da quei brani dei suoi diari che sono giunti sino a noi.
Di seguito le sue note di ciò che gli accadde la scorsa settimana, quasi cinquecento anni or sono.

Adì 18, la sera del santo Luca, cominciai a dormire giù col coltrone nuovo.
Adì 19 d'ottobre mi sentivo male, cioè infredato, e dipoi non potevo riavere lo spurgho, e con gran fatica durò parechi sere uscire di quella cosa soda della gola come alle volte io ho hauto di state: non so se s'è stato per esser durato un buondato bellissimi tempi e mangiato tuttavia bene; e adì detto cominciai a riguardarmi un poco e duròmi 3 dì 30  once di pane, cioè 10 once a pasto, cioè una volta el dì e con poco bere; e prima, adì 16 di detto, imbottai barili 6 di vino da Radda.
Adì 22 detto 1554 tornai e stetti in casa solo aspetare el fattore insino alle 4 hore, e dipoi mangiai uno pesce d'uovo, 8 once di pane, una noce e uno fico secho e due meluze cotte.
Adì 23, la sera, mangiai minestra di castrone lesso e dua mele cotte e 10 once di pane e una meza mezetta di vino, e cominciato a manomettere la botte.


Pontormo, Diario, Manoscritto Magliabechiano VIII 1490, BNC, Firenze.
Pontormo, Diario, Abscondita, Milano, 2005.

[Per inciso: la squisita ditta Berti di Scarperia ha realizzato un coltello ispirandosi fedelmente a quello dipinto dal nostro ne La Cena in Emmaus conservata agli Uffizi]

[Per inciso: pesce d'uovo è nome straordinario per la nostra più prosaica frittata]

venerdì 26 settembre 2008

Flask

Inizio con questo post la dimostrazione che nel gigantesco romanzo di Melville c'è pane per tutti i denti. Persino per le mie misere categorie del blog.
La prima, Déjeuner célèbres, potrebbe essere meglio rappresentata dal Capitolo V, che si intitola "Colazione". Ma sarebbe troppo scontato. Per questo ho scelto un brano diverso, che in coda strappa un sorriso. Ho già pronte le altre prove a sostegno della mia tesi; sono salvate come bozze e pronte per la pubblicazione. Ma le lascio per i giorni prossimi, quando vi scriverò dalla riva del mare.


Flask era l'ultimo a scendere a pranzo e Flask era il primo a risalire. Pensate! Poiché così il pranzo di Flask veniva malamente strozzato nel tempo. Starbuck e Stubb, tutti e due avevano il vantaggio dell'inizio e ancora il privilegio di indugiare in coda. E se poi succede che Stubb, soltanto di poco più in alto che Flask, abbia poco appetito e mostri presto sintomi che sta per terminare, allora Flask deve darsi d'attorno, non riesce quel giorno a trangugiare più di tre bocconi, poiché è contro la sacra usanza che Stubb preceda Flask in coperta. Fu per questo che Flask ammise una volta in privato che, da quando era salito alla dignità di ufficiale, da allora non aveva mai saputo che cosa fosse non essere più o meno affamato. Poichè quel che mangiava serviva non tanto a cavargli la fame quanto a conservargliela immortale.

Melville, H., Moby Dick, Adelphi, Milano, 1994.

[Cap. XXXIV, Della tavola nella cabina, pag. 181]

mercoledì 17 settembre 2008

Déchéance

In questi giorni di umore bilioso, funestati da preoccupanti prime pagine, tento di nuotare controcorrente con un post che ha l'intenzione di mettervi di buonumore.

Chi si chieda cosa voglia dire "scambiare la vita con la letteratura, e viceversa" e quale sia la genesi di molte mie idee peregrine, non ha che da seguitare nella lettura.

La reputazione che s’acquistò di eccentrico, la corroborò vestendosi di velluto bianco, sfoggiando panciotti ricamati come piviali, inserendo a mo’ di cravatta nello scollo della camicia un mazzo di violette di Parma, imbandendo ai letterati pranzi che suscitavano larga eco. Rinnovando tra l’altro una stramberia registrata nelle cronache del XVIII secolo, inscenò un pranzo a lutto per commemorare il più futile degli infortuni.
Nella sala da pranzo addobbata in nero, che dava sul giardino trasformato per l’occasione – polvere di carbone cospargeva ora i viali, la piccola vasca, chiusa adesso da un orlo di basalto, ondeggiava in inchiostro: pini e cipressi mascheravano i boschetti – il pranzo era stato imbandito su una tovaglia nera, guarnita di cestelli di viole e di scabbiose, rischiarata da candelabri lingueggianti di fiamme verdi e da lucerne in cui ardevano ceri.
Mentre un’orchestra invisibile faceva udire marce funebri, servivano in tavola negre ignude coi piedi in babbucce di foggia sacra, calzate di tessuto d’argento cosparso di lagrime.
In piatti orlati di nero, era stata servita zuppa di testuggine; con pane di segala russa, olive mature di Turchia, caviale, bottarga di muggine, s’eran poi avvicendate salsicce affumicate di Francoforte, caccia in salsa color tra di liquirizia e lucido da scarpe; un passato di tartufi; quindi creme ambrate di cioccolato, bodino
(sic) all’inglese, pesche, noci, sapa, more e ciliegie acquaiole. In bicchieri scuri s’eran bevuti vini della Limagne e del Roussillon; del Tenedo, del Val Peñas e del Porto; gustato, dopo il caffè e l’acquavite di mallo, del kwas, del porter e dello stout.
La cerimonia commemorava una panne di virilità; e le lettere d’invito somigliavano tipograficamente a partecipazioni di morte.

Huysmans, J.K., Controcorrente, Gentile Editore, Milano, 1944.

P.S. Non vi sfugga la frase finale, dalla quale si impara che "panne" è femminile. Cosa che, non so voi, ma io non sapevo.

sabato 13 settembre 2008

Aahh ... e anche stasera è andata

La cena in onore di Lucianino a casa del Conte Mascetti

Una frittatina di due uova (da mangiarsi in tre).

Rinforzino: nove olive di numero, mezz’etto di stracchino e un quarto di vino sfuso.

mercoledì 10 settembre 2008

La cena del Gatto e la Volpe

Ecco cosa mangiarono il Gatto e la Volpe, ospiti di Pinocchio al Gambero Rosso:

Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato! La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d'uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca. Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa.

Collodi, C., Le Avventure di Pinocchio: Storia di un Burattino, Felice Paggi, Firenze, 1883.