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lunedì 11 maggio 2009

Ora et labora


Leggo sempre con interesse i saggi di Gian Luigi Beccaria sulle questioni di lingua. Ricordo con piacere il suo Sicuterat, il latino di chi non lo sa, pubblicato da Garzanti nel 2002 ed anche Per difesa e per amore, sempre uscito per i tipi di Garzanti l'anno scorso. Ora in Tra le pieghe delle parole leggo a pagina 189:

[...] incontro nel vocabolario milanese del Cherubini l'espressione fa el fraa, fare lo gnorri, fare l'indiano, che ricorda l'ottocentesco modo toscano sto co' frati, o anche sto co' frati e zappo l'orto, riferito a chi non voleva far capire a colui che lo interrogava una cosa che non aveva alcuna intenzione di dire.

A me la frase sto cco' ffrati e zappo l'orto, detta proprio alla versiliese, pare voglia dire qualcosa di diverso. Ho telefonato al Giannelli, che mi ha riferito un punto di vista ulteriore. Per lui la frase significa "apparentemente sto in chiesa, ma in realtà faccio i miei affari. Pare che sia religioso ed osservante, ma ho il mio credo personale, non sono quello che sembro".
E' un punto di vista che rispetto, ma che non condivido del tutto. Mi trovo invece d'accordo con lui quando, di sfuggita, accenna ad un "imbroglio di testimone". Per me star coi frati e zappare l'orto equivale alla posizione di chi si lega ad una personalità maggiore della sua ed ubbidisce senza farsi tante domande. Si è messo in convento, sta con i frati, quegli gli hanno detto di zappare l'orto e lui, senza chiedere il perchè, si mette lì e lo zappa. Se poi un giorno qualcuno verrà a chiedergli contezza di quel comportameto lui risponderà innocentemente: Nulla vidi, nulla saccio e mi levo d'ogni impaccio.

Chi sta coi frati e zappa l'orto è persona che si contenta d'esser guidato, che aderisce senza discutere alla proposte altrui, che lega l'asino dove vóle 'l padrone e quando gli chiedono perchè ha tenuto tale comportamento si scherma dietro l'auctoritas altrui.

Ma, trattandosi di questione di lingua, attendo i vostri punti di vista.

Beccaria, G.L., Tra le pieghe delle parole, Einaudi, Torino, 2008

mercoledì 22 ottobre 2008

Atto 1 - Egitto, 1822

Ora, sia Frediani che Segato erano due egittofili. Il primo, avendo cura di lasciare moglie e figlio a Pruno,  partì  per l'Africa alla ricerca dell'avventura adottando il nome-de-plume "Amiro".
Il secondo, che mostrava lampi di genio sin dalla più tenera età, sentendosi chiamare dai suo conterranei divagato e parassita, pensò bene di cercar fortuna nella terra dei faraoni e partì per il Cairo con un gran numero di lettere di raccomandazione.

Frediani, alla disperata ricerca di sponsores, continuava a scrivere ai suoi protettori descrivendo con magnificenza le bellezze e le rarità d'Egitto e promettendo invii di balle di caffè e spezie rare. Segato invece studiava, leggeva, sperimentava, disegnava, domandava, approfondiva ... tutto preso dalla curiosità e dalla voglia di imparare.
Attratto dal mystero e dalla magia dell'antico popolo egizio decise di entrare in una tomba per approfondire le pratiche della mummificazione. Vi rimase rinchiuso per sette giorni e ne uscì - narrano le cronache - con aspetto senescente e... col segreto per pietrificare il corpo umano.

I due si incontrarono e per un certo periodo viaggiarono insieme vivendo avventure che un giorno varrebbe la pena raccontare. E chissà che un giorno ...

Ma restiamo in tema.

giovedì 16 ottobre 2008

Lo sticchio

Visitare la Sicilia senza aver letto Sciascia è folle. Si ha la garanzia di non capire nulla. Leggendolo, invece, si mette per lo meno a fuoco che esiste un metalinguaggio fatto di silenzi, di pause e di parole che hanno sempre un significato ulteriore.
Quando si ricorre ad un linguaggio criptato lo si fa solitamente a scopi difensivi. E la Sicilia, violentata nei secoli da ogni razza d'invasore, ha costruito un sistema linguistico chiuso ed inaccessibile, dove il silenzio parla più delle parole e dove il genere maschile indica spesso attributi femminili.
Basti riflettere sul fatto che - sempre con rispetto parlando, per carità - il pene è chiamato la minchia, mentre la ... candida rosa ha un nome maschile. Che ha dato il titolo a questo post.

[Per inciso: io l'ho saputo ad agosto. E' da allora che volevo dirlo a qualcuno].

lunedì 13 ottobre 2008

Amore ed Imene

Mi capita, ogni tanto, di aprire un libro e leggere a caso una riga od un verso a scopo vaticinatorio. Magari ho un problema da risolvere, un dubbio, una riflessione che non trova sbocco, ed allora solitamente apro la Commedia per trovare in un verso a caso, uno spunto, una soluzione, un viatico.
In casa a FdM abbiamo da anni una copia sudicia e consunta de Il Giorno di Parini e l'altro giorno l'ho utilizzata per questo giochetto. Poi, trovando la lettura di un certo interesse, ho proseguito ed ho trovato una cosa divertente che mi pare opportuno condividere con voi. Ai versi 330 e ss. de Il Mattino si legge:

Tempo fu già che il pargoletto Amore
Dato era in guardia al suo fratello Imene;
[... dice poi Venere]
"Ite, o figli, del par; tu più possente
Il dardo scocca; e tu più cauto reggi
A certa meta". Così ognor congiunta
Iva la dolce coppia, e in un sol regno
E d'un nodo comun l'alme stringea

La spiegazione, in nota, espone la teoria secondo la quale Amore ed Imene sono entrambi figli di Venere: il primo rappresentante della passione cieca, veemente, volubile; il secondo tutore della santità delle nozze e della severità del matrimonio.
Da qui è nata in me una riflessione sull'ulteriore senso poetico dell'anatomia femminile (con rispetto parlando, s'intende). Riflessione che offro alla vostra attenzione, così, gratuitamente.

Parini, G., Il giorno, con introduzione e commento di Giuseppe Albini, Sansoni, Firenze, 1920


P.S. I lettori meno accorti notino che col verso "Iva la dolce coppia" il Parini non volle far riferimento ad inique gabelle sul valore aggiunto, ma piuttosto licenziare poeticamente il verbo andare.

venerdì 10 ottobre 2008

Mi sia permessa una parola sulle forme flesse di averci, stimolata dal recente uso che ne ha fatto l'attenta linguista Daniuccia - dalla quale c'è sempre da imparare - e suggellata dalla risposta ad un quesito inviato all'Accademia della Crusca.

[Che palle, sempre con quest'Accademia. Ogni momento la tiri fuori! Diranno i miei lettori. Che volete, io ne sono indegnamente Amico, e ne spingo il nome perchè ne aumenti la considerazione]

La frase era: - "di ricordi, ognuno c'ha il suo" ed è stata inviata alle 11:26 AM del 9 ottobre u.s. via Ping.fm -> Twitter -> Facebook.

Le possibili varianti sono:

1) ci ha
2) c(i) ha
3) cià
4) cj ha

Secondo Sergio Raffaelli, autore della risposta di cui sopra, la prima variante è preferita dagli studiosi e cultori dell'italiano, ma ha il difetto di spingere alla pronuncia della vocale i che nel parlato non c'è. La seconda appare, cito testualmente, "in circuiti culturali elevati", ma ha il problema della parentesi che è "artificio alquanto ingombrante". La terza è erronea e "sguaiatamente dialettale". La quarta, egli sostiene, è da preferirsi  perchè non genera equivoci e non è "ingombrante oltre misura".
Ebbene, signori, contro ogni aspettativa io difendo Daniuccia ed il suo uso colto dell'apostrofo. Quella j lunga mi sa di romanaccio, di daje, ed ha poco a che vedere con il c'ha "attualizzante".
In confronto a certi commentatori che dimenticano le sorelline mute (non solo l'incolpevole -g- dell'altro giorno, ma anche un visitatore del blog di Darker che, nonostante quanto scrive, non pare rilegga abbastanza con calma) qui mi pare si respiri aria più fine. Proprio quella di cui ho bisogno per riprendermi dal mal di gola.

Non vi pare ?

P.S. Un encomio solenne a chi saprà spiegare il motivo del titolo di questo post.

mercoledì 1 ottobre 2008

Fuck Simile

Ma si può, si può, si puòòòòòòòòòò scrivere fax simile ? Ma cosa ha in testa chi scrive una cosa del genere ? Perchè non si sente l'esigenza di controllare ? Perchè ? Perchè ? Percheeeeè ?

[Si nota che l'eccesso di nervoso mi ha fatto pigiare sui tasti con eccessiva verve ?]

[Fate presto a leggere questo post perchè può darsi che lo cassi]

[!]


Pequod

Sono irresistibilmente disturbato dagli errori di stampa. Sarà perché una delle mie fatiche editoriali aveva un refuso nella prima linea della prima pagina, ma proprio non riesco a fare a meno di segnarli a margine del libro, con la stizza di una maestrina dalla penna rossa.
Anche in Moby Dick ce ne sono. Nulla di grave, per l'amor di Dio, ma tra una ristampa e l'altra gli editori potrebbero trovare il tempo di emendarli.

Era una nave della vecchia scuola, piuttosta piccola che altro, con addosso un aspetto antiquato ...

Melville, H., Moby Dick, Adelphi, Milano, 1994.

[Cap. XVI, La nave, pag. 102].

Ψυχή

Oggi Mrs. D. ha utilizzato, in un suo post, la parola "psichedelico". A me è venuta in mente la parola "psicopompo" ossia il Caronte trasportatore delle anime all'inferno. Siccome Borges sostiene che tra i giusti ci sia anche chi scopre un'etimologia, desidero fissare l'idea di "psyche" alla base delle due parole.

Psichedelico è composto da psyché - 'anima' ed edìlôun - 'mostrare'
Psicopompo dal solito psyché - 'anima' e pompós - 'che guida, che conduce'

Naturalmente quanto ho scritto è farina del sacco di Garzanti linguistica.
Ma è bene soffermarsi un minuto per rifletterci sopra. Così quando si sente parlare di pompe funebri si capisce che non si tratta di idraulica (come pensavo da bambino).

lunedì 22 settembre 2008

Oggiotto

Se c'è una cosa che mi dà noia è sentire in televisione la frase "settimana prossima" senza l'articolo determinativo.
Ancora una volta reclamo che della questione se n'è occupata la Crusca, senza peraltro che questo abbia risolto il problema. D'accordo che la lingua è in evoluzione, d'accordo che le grammatiche ed i dizionari si devono limitare a registrare l'uso della lingua fatta dal popolo che la parla, d'accordo tutto, ma fino ad un certo punto.
E' bene sapere che si scrive, e si dice: "la prossima settimana" o "la settimana prossima". Con l'articolo davanti.

In alternativa può usarsi la splendida locuzione che dà il titolo a questo post. Significa, per i toscani, "otto giorni da oggi". Ossia: la prossima settimana.

sabato 13 settembre 2008

Piuttosto

Mi infastidisce moltissimo l'uso dell'avverbio piuttosto in senso disgiuntivo (come il latino vel). Leggo online, prima di scrivere questo post, che non sono solo a combattere questa crociata. Del problema se ne sono occupati tutti: dall'Accademia della Crusca in giù. Nonostante questo il problema persiste. C'è evidentemente bisogno di ribadire che l'avverbio in questione si usa in senso esclusivo (come il latino aut).

Oggi sono un pochino nervoso.