martedì 26 gennaio 2010

Solus, ma questa volta non ad solam

L'amica giada g [***] ha mantenuto la minaccia di "taggarmi" (absit iniuria verbis) su Flickr. Osa chiedere, addirittura, che sotto alla mia venerabile immagine compaia un testo nel quale io dichiaro di me cose che lei non conosce.

La cosa è davvero redicola. (Sì, leggasi proprio redicola). La giovane in questione è stata testimone dei miei primi passi, era al mio fianco quando ho imparato a scrivere, mi ha sopportato nel periodo sovrabbondante della mia adolescenza, è stata invitata alle mie nozze, ha visto nascere i miei figli e mi deve ancora un pranzo in cambio dei mille e mille che mi ha scucito. Può sosteneresi, ragionevolmente, che ci siano cose di me che non conosce ?

Fossi un taciturno, un ombroso, un omertoso, si potrebbe anche pensare che di me le abbia rivelato poco. Ma se parlo solo io ? Se ho un ego smisurato ? Se non riesco a trattenere un pensiero ? Come può credere - la tapina - che esistano questioni ignote ?

Dovrei scrivere, allora, a beneficio di chi non mi conosce. Ma - ancora - è evidente che chi non mi conosce non ha interesse a sapere dettagli così precisi sugli atti minuti della mia vita quotidiana.

Insomma, giada g […], che vorresti ?

Per smentire quanto appena scritto, e per non interrompere questa catena di sant'Antonio del "taggaggio" (o "taggazione" o "tagging" ?) mi proverò - obtorto collo - a redigere un testo in sei punti ad usum delphini.

6. Mi chiamo Gianluca. E Gianluchino. O Gianlù. Ma anche Alvaro. E Ciccio. E Musmi. Mi sarebbe piaciuto chiamarmi Leone. O Gosto. Od anche Luigi. In certi ambienti sono noto col nome-de-plume di "The Dacre Hotel".

6. Mi piace il pollo al curry. Accompagnato col riso basmati. Mi piace il vino nero, e la pizza, e la frittata di patate (purché sia alta). Mi piace la curcuma, che per un periodo ho messo anche nel caffelatte, il pepe coarse ground di McCormick ed il club sandwich dell'Harry's Bar. Mangerei un chilo di broccoli tutte le sere. Non mi piace il formaggio, ma se sono invitato a cena lo mangio lo stesso per non dispiacere gli ospiti.

6. Mi piace il freddo, il caldo ed il clima temperato. Non soffro, insomma, né l'eccessivo rigore né l'estrema canicola. Ciò perché dòmino il segreto per mitigarne gli effetti. Ma questa è cosa che non rivelo.

6. Ho imparato - un pochino - l'arte della tolleranza. Prima di perder la pazienza, insomma, riesco a frenarmi; anche se delle volte mi ci vogliono le catene d'un àncora. L'esercizio della frenatura, tuttavia, ha inevitabilmente il side-effect di farmi cambiar d'umore. Ciò, ovviamente, in pejus.

6. Ammiro - e venero - il potere della parola.

6. Anch'io ho un numero preferito.

Scrivo qui - e non su Flickr - questo testo perchè non desidero che lo si associ alla mia figura. Che poi, a ben vedere, si farebbe presto. Basterebbe fare qualche ricerca incrociata su Google, e tutto salterebbe fuori.
Ma un minimo di riservatezza, insomma.

lunedì 25 gennaio 2010

Gravis dum suavis

[Pescara] 11 luglio [1888]

Jersera, tornando da Francavilla, trovai la tua lettera. Grazie. Ogni parola mi bruciava l'anima. Uscii, dopo, e camminai lungo il mare, per molto tempo. Non mai, io penso, l'anima d'un uomo ha cercata con maggiore furia di passione, d'ardore e di desiderio un'altra anima. La notte, il mare infinito, tutto il mondo degli astri e del silenzio mi pareva angusto a contenere quella terribile espansione d'amore umano.
Sentisti tu? Erano le dieci di sera. Le stelle scintillavano di un fulgor singolare. E le acque si movevano a pena, con dolcezza.
Dov'eri ? Che pensavi ?
I ricordi non ti soffocavano ?
Addio. Amami. Io ti amo; io mi sento così male che non reggo più; io darei, per averti, il miglior sangue del mio cuore.

Gabriele D'Annunzio, Lettere a Barbara Leoni, ES, Milano, 2008.

giovedì 7 gennaio 2010

In morte di N. G.

In morte di Nada Giliberti
Tutto ‘l mondo, da quando un c’è più N.
è come una ruota senza ‘l battistrada
come ‘n cavallo senza la su’ biada
è come Siena senza ‘na contrada

come Las Vegas senza più ‘l Nevada
pare ‘na gippe andata andata foristrada
sembra un prado privo di rugiada
o ‘l Bartezzaghi senza una sciarada

E ‘l ricordo no, no, non si dirada
che dovunque ti giri o te ne vada
pare un ci sia più nulla che t’aggrada

l’unica cosa da tenere a bada
sperando che la mente ti pervada
e che è lassù che c’indica la strada

sabato 2 gennaio 2010

Parole di uno scultore ai suoi allievi


Io non so alcuna cosa, all'infuori dell'esercizio dell'arte, che possa meglio giovare a un giovane scultore, che una visita a quelle stupende Alpi Apuane. Quivi tutto parla della magnificenza, della nobiltà e della terribilità di questa materia, in cui noi siamo chiamati a immettere lo spirito vivificatore. Tutti ivi è grande e aspro e solenne. L'aspetto delle montagne biancheggianti, gli immani blocchi giacenti, il rombo delle mine e il picchiar vasto del martelli, i cumuli di immensi detriti che danno visibile testimonianza dell'antichità delle cave, della millenaria fatica che l'uomo vi ha durato attorno. La razza stessa degli alpigiani che vi faticano è singolare: maschia e tenace come i prossimi liguri, ma già raggentilita dal buon garbo toscano. Io non so dimenticare la grata impressione che mi fece la prima volta quel loro aspetto grave e pacato, e quel loro così schietto "buongiorno" con cui ad ogni incontro mi salutavano.
Una mirabile divisione di lavoro, un ordine esatto, una calma operosa, regnano nell'apparente caos che investe tutta la montagna. V'è il dirigente tecnico, il dirigente meccanico, il cavatore, il minatore, il dirozzatore del blocco - e chi ha cura dei ferri, chi della manutenzione della ripida strada per cui si fan slittare i grandi monoliti. Questi, che non di rado raggiungono i cinquecento quintali, sono smossi a mezzo di giganteschi martinetti e ciclopiche leve, e così legati su solidissime slitte di travoni; le quali poi assicurate a grossi canapi che si attorciglian via via a gagliardi piuoli fissati lungo la strada a 30-40 metri, vengon calate giù al piano. Questo lavoro non si effettua senza pericoli. Del resto, il solo inerpicarsi sulla montagna per quelli scarsi sentieri scavati nella roccia, è ardua cosa. Tutto colà ha qualcosa di immane e di eroico. Né io vi dico per smania di falso lirismo; ma per farvi intendere tutta la grandiosità, la nobiltà di questo sforzo umano che voi siete chiamati a coronare e a giustificare con la vostra opera spiritualizzatrice. La quale pertanto dovrà esser degna di tanto arduo e travaglioso principio. Lasciatemi ricordare l'episodio di certo nostro collega (ch'io conosco bene), il quale, giovane, mentre attendeva trepidante nel suo studio il trasporto del suo primo blocco di marmo da cui doveva cavare certa statua lungamente meditata, udendo fuori l'aspra fatica dei carradori che frustavano i cavalli, sentiva i suoi occhi empirsi di lagrime pensando se alla fine il suo lavoro trasformatore - l'opera sua d'artista - avrebbe francato il dispendio di tanto sforzo umano e animale.
Il blocco, nella sua primiera forma, ha sempre una sua evidente parentela con la maestà della montagna; parentela che è troppe volte guasta dall'inconsulto e frivolo lavoro dell'uomo. Sicchè si può ben dire che la bella materia era più vicina all'arte quando l'aveva appena partorita la materna montagna, sussidiandola il rustico alpigiano, che non dopo che vi mise la mano il cittadino "artista".

Wildt, A., L'arte del Marmo, Abscondita, Milano, 2002