mercoledì 28 gennaio 2009

Suum cuique tribuere

Come fosse ieri, sessantaquattro anni or sono, l'esercito russo entrava in Auschwitz e liberava gli internati sfuggiti alla folle marcia della morte, l'ultimo disperato tentativo tedesco di sfuggire dalla responsabilità.

Io ho inteso ricordare il prigioniero ignoto, scegliendo a caso un numero di matricola rappresentativo, più che di un individuo particolare, dell'idea stessa di deportato. E' finita che alcuni, assai più bravi di me, sono riusciti a trovare nome, cognome, residenza ed esito di quel numero di matricola, rivestendo quindi di ossa e di carne quel fantasma che credevo d'aver evocato nell'anonimato. Meglio così.

[Per inciso: si tratta di un deportato veneto, partito dal campo di Fossoli e riuscito a sopravvivere].

Oggi, pur in ritardo, voglio stimolare una riflessione sui motti che campeggiano sui cancelli d'ingresso dei campi. Conoscevo il celebre "Arbeit macht frei" che ritenevo velato di una macabra ironia. Nulla sapevo, invece, del motto "Jedem das Seine" che dava il benvenuto a Buchenwald. Può forse tradursi con la frase "a ciascuno il suo" e mi pare così orribile, così scientemente malvagio, così filosoficamente spregevole da non poter immaginare niente di peggio. Mi offende per due ordini di ragioni: la principale è evidente, e non merita di essere commentata; la subordinata è legata al fatto che la stessa frase è posta a cardine del diritto romano ed è nata con significati e scopi assai più nobili. Usarla in chiave antisemita è quindi anche un oltraggio ai principi fondamentali del nostro sistema giuridico.

Come se non bastasse tutto il resto.



1 commento:

darker ha detto...

Concordo.
Ieri sera ho visto per l'ennesima volta "Il Pianista", capolavoro imperdibile.
Tra l'altro la frase in questione è stata ripresa in Germania da numerose campagne pubblicitarie. Viene il dubbio che lo abbiano fatto volontariamente per suscitare polemica e per far parlare ancora di più del prodotto pubblicizzato. Indecente.