sabato 17 aprile 2010

Si monumentum requiris, circumspice


Gli stessi piedi, che prima erano infagottati in un paio di stivaloni di camoscio foderati di pelliccia, ora passeggiano scalzi e nudi davanti a me. Sono di quella ragazza, incontrata per strada intabarrata in un cappottone siberiano che la impacciava nei movimenti, che ora si muove leggiadra sul palco vestita d'un abito bianco e leggero (vorrei scrivere leggiero, come il poeta).

Solo i capelli sono rimasti gli stessi: folti e neri con marezzature rosso rame che ogni tanto s'accendono sotto i riflettori.
Che anche il volto mi pare cambiato, ed il portamento stesso. Ora è quasi più bella, più a suo agio, più completa.

Queste rapide pennellate, anzi, per meglio dire, queste sbozzature voglion descrivere Elisabetta Salvatori, che ieri sera sono andato a vedere al Teatro di Rifredi nel suo La bimba che aspetta. Sbozzature che lei stessa utilizza per delineare la Carrara anarchica di fine secolo, la Viareggio gaudente di primo novecento, con tutto quello che ci sta nel mezzo.

Intrecciando ad arte una perfetta dizione italiana col mesto accento della Versilia che nel cor mi sta, riesce ad evocare a colpi di subbia, storie di uomini, di donne, di paesi. Tutta quella cultura, insomma, che ha concorso alla mia formazione.

Ed alcuni di quei colpi di subbia mi entrano nel petto, e provo un dolore misto a riconoscenza: per l'immagine della lastra di marmo che prima è desco quotidiano e poi lastra tombale, per la polvere di marmo che vedevo sugli occhiali di Sem Ghelardini, per la marmettola che mi inzaccherava le scarpe quando andavo sul piazzale del laboratorio.

E poi qualche altro colpo, dato di fino, con la gradina, per farmi vedere le onde del mare con occhio diverso, per ricordarmi di quando le zie mi portavano al cimitero (che gli òmini no, quelli un ci venìvino), per quella "Fate la nanna coscine di pollo" che m'avranno cantato proprio il 16 d'aprile di qualche anno fa, quando sono nato.

Brava Elisabetta Salvatori. Ad aver scolpito nel marmo, con la perizia di un panneggiatore, un monumento ai nostri monti, alla nostra terra, al nostro mare.

Brava. E grazie.

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